La diffamazione online: quanto è facile “cascarci”

Attenzione all’uso patologico dei social

La tematica della diffamazione mediante l’utilizzo dei social media è oggetto di ampi dibattiti: una notizia pubblicata sul web, un post su un social network, una recensione come advisor, un commento o una frase inappropriata sono in grado di raggiungere istantaneamente un numero imprecisato di persone nel mondo. Il problema della comunicazione digitale non solo è attualissimo, ma rappresenta una delle fattispecie penali più consumate ai giorni nostri: le nuove tecnologie di certo permettono a tutti di esercitare il proprio diritto di espressione – online – e, nello stesso tempo, pongono a rischio alcuni tra i diritti personalissimi più importanti: la dignità, l’onore e la reputazione.

L’uso spasmodico dei social network ci fa assistere alle inevitabili forme patologiche dell’utilizzo degli stessi, con l’evidente tendenza a leggere commenti in cui si parla male di tutto e di tutti, si diffondono immagini denigratorie di chiunque e si offende, in continuazione. Il web, in questo senso, è uno strumento devastante: l’anonimato induce gli haters, i “leoni da tastiera” a insulti di ogni genere, per i quali l’offesa online diventa una dipendenza.

E, nonostante molte volte l’utente che insulta va incontro alla rimozione del contenuto del messaggio e al ban dalla piattaforma, le denunce di diffamazione che pervengono presso gli organi di polizia e le Procure della Repubblica crescono in modo esponenziale e proprio gli haters che, tramite la creazione di nickname e metodi subdoli, tentano di sfuggire dal tentativo di essere individuati dietro al profilo cui si celano, rendono le indagini sempre più complesse.

Vero è che la tutela dei beni quali l’onore e la reputazione va contemperata, sempre, con le libertà fondamentali che la Costituzione ci garantisce, in questo caso la libertà di manifestazione del proprio pensiero ex art. 21 Cost.

Ma è altrettanto vero che i vantaggi e gli svantaggi di questa libertà devono sempre essere misurati e contemperati in relazione a ciò che giova e ciò che nuoce alla società: il progressivo sviluppo della società tecnologica ha sacrificato la sfera privata di ognuno, limitandone la pacifica e intima estrinsecazione e ciò che la giurisprudenza ha deciso che diventi rilevante – per il reato di diffamazione – sono tutte quelle espressioni denigratorie che risultano essere idonee, in quel determinato contesto e momento storico, a offendere l’onore e il decoro di una persona.

Perché si parli di diffamazione non occorre neppure che all’offeso siano attribuiti fatti determinati, ma è sufficiente che gli insulti si estrinsechino in meri giudizi di valutazione non collegati a fatti specifici (c.d. “diffamazione generica”) e questo perché anche solo il racconto di notizie generiche può essere lesivo dell’onore e della reputazione dell’offeso.

Merita un focus il diritto all’identità personale, tutelato dall’art. 2 della Costituzione, per il quale ognuno può pretendere di vedere rispettate le proprie opinioni e la propria personalità: ognuno di noi ha il diritto di essere sé stesso e, quindi, di pretendere di essere tutelato da attribuzioni estranee, travisanti che nulla hanno a che vedere con la propria personalità.

Il reato di diffamazione a mezzo social viene valutato ai sensi del terzo comma dell’art. 595 c.p. che ritiene circostanza aggravante dell’offesa arrecata all’altrui reputazione l’utilizzo di qualsivoglia mezzo di pubblicità, che può portare a una condanna fino a tre anni di reclusione oltre a una multa non inferiore a € 516,00.

E per quanto sia facile incorrere in questo reato facciamo qualche esempio. Una recente sentenza del Tribunale di Torino ha per protagoniste l’ex moglie e la sua amica nei confronti dell’ex marito, persona offesa. L’ex moglie si lamentava dell’ex marito sulla propria pagina Facebook: “Ancora una volta il mio ex si è dimostrato una merda… ed è ancora un complimento […] Questa persona non è padre nè uomo… non vale nulla.”, seguiva il commento dell’amica: “chiedi – all’avvocato – di non farglieli vedere più. Tanto il padre non lo fa e i bambini non lo vogliono. Pagherà con gli interessi. Questa merda umana”. Il Tribunale di Torino le ha dichiarate entrambe colpevoli del reato di diffamazione, condannandole al pagamento di una multa e delle spese processuali.

E ancora, per la Corte di Cassazione è colpevole di diffamazione la moglie che, venuta a conoscenza del tradimento del marito, ha utilizzato un post sulla propria pagina Facebook per definire l’amante una poco di buono e una sfascia famiglie e presupponendo che il figlio di questa sia in realtà figlio del proprio marito, aggravando la sua posizione.

Dall’altra parte, è interessante analizzare un’altra recente sentenza della Corte di Cassazione che ha ritenuto insussistente il reato di diffamazione per il caso di una divulgazione di un video, tramite la piattaforma youtube, nel quale veniva “augurato” a un medico – che aveva criticato aspramente l’omosessualità – che “le figlie siano lesbiche e sposino dei gay”. Perché non è stato ritenuto reato? Perché i giudici della Suprema Corte ritengono che, perché sia configurabile il reato di diffamazione, le parole utilizzate debbano essere attributive di qualità sfavorevoli o che gettino, in qualche modo, una luce negativa sull’offeso: è quindi priva di alcuna rilevanza giuridica l’espressione utilizzata di augurio di qualcosa che dipende dalla volontà e inclinazione delle figlie, in questo caso.

I colpevoli del reato di diffamazione, oltre alle pene già segnalate, incorreranno anche nell’obbligo di risarcire l’offeso dei danni a lui arrecati e, a conti fatti, secondo i parametri stabiliti dalle tabelle del Tribunale di Milano, le ipotesi di risarcimento possono anche superare la somma di € 50.000,00.

La prossima volta che, arrabbiati, apriamo i social…. Beh, forse dovremmo ricordarci che abbiamo almeno 50.000 ragioni per non offendere nessuno, se la ragione più importante – etica e umana del rispetto interpersonale – non fosse sufficiente per farci desistere.

Chiara Aldegheri
Dottoressa in giurisprudenza