La recessione da Covid19 è donna: il problema della She-Cession

Ormai l’abbiamo capito tutti: quella in corso è la crisi economico-sociale più grave dal secondo dopoguerra. I giornalisti e i politici incalzano su questo tema, rappresentandoci la più cruda realtà: licenziamenti al momento bloccati, cassa integrazione, chiusure imposte che hanno stroncato le attività, ristori per tentare di tenerci a galla, ma che, alla fine dei conti, non possono dire di esserci riusciti (per il primo trimestre del 2021 le stime prevedono la chiusura totale di oltre 240.000 imprese italiane).

Ma ciò che non si dice – o che si dice veramente a bassa voce – è che la crisi da Covid19 colpisce prevalentemente le donne, con percentuali allarmanti. Tante sono le ricerche mondiali approdate tutte allo stesso risultato: è calata drammaticamente l’occupazione femminile (e sta calando tutt’ora) perché il Covid19 colpisce soprattutto il terziario, settore nei cui comparti sono impiegate le donne. Il turismo, la ristorazione, il commercio al dettaglio, il lavoro domestico e, nonostante i contratti a tempo indeterminato siano stati salvaguardati – per il momento – dal blocco dei licenziamenti e dalla cassa integrazione, sono stati tagliati i posti di lavoro di tutte le altre tipologie: contratti a termine che non sono stati rinnovati, contratti di collaborazione stroncati e, in generale, tutte le molteplici forme di lavoro non-standard.

A fine del 2020 la conta delle perdite ha visto un calo di 470.000 donne occupate rispetto al secondo trimestre del 2019; l’occupazione femminile in Italia è scesa sotto il 50%, precisamente al 48,4%, con una percentuale allarmante al sud, dove l’80% delle donne non lavora. E il trend si dimostra essere il medesimo in tutto il mondo: secondo una ricerca di Oxfam Canada, il settore dei servizi per le donne è stato dimezzato dalla pandemia e ovunque l’incidenza della disoccupazione, della sospensione dal lavoro e delle riduzioni di reddito è stata di gran lunga più alta per le lavoratrici.

E comunque la si guardi, la crisi da Covid19 è una crisi di genere: la pandemia ha messo in luce il fatto che le donne sono “sovrarappresentate” in ogni ambito colpito; il primo è quello dei lavori maggiormente esposti al contagio, data la prevalenza femminile nel settore sanitario, il secondo è quello della disoccupazione dal momento che i settori “rosa” del mercato di lavoro – i più precari – sono caratterizzati da retribuzioni più basse e da alte quote di contratti a termine e part time che non sono stati rinnovati, il terzo è quello del lavoro in casa, esponenzialmente cresciuto. L’unico ambito nel quale le donne non sono sovraesposte è quello della risposta politica, che rischia così di non fornire un’ottica di genere agli interventi massivi che saranno approvati, data la quantità di risorse economiche pubbliche che i piani europei dovrebbero fornire.

È un po’ come se stessimo dicendo alle donne che perdono il lavoro che devono andare e stare a casa fino a quando non imporranno a mariti o compagni una distribuzione equa del lavoro in casa; solo a quel punto potranno riaffacciarsi al mercato del lavoro. È praticamente un alibi – che affonda radici nella storia dell’umanità – quello che stiamo fornendo alle politiche occupazionali, che non fa altro che aumentare drasticamente il gap della disuguaglianza di genere e rischia di bruciare anni e anni di conquiste al femminile.

E ciò che rende il tutto più allarmante è che l’impatto di genere della crisi è misconosciuto dalle politiche finora messe in campo per affrontarla. Il Recovery Fund parrebbe dedicare 17,1 miliardi dei 209 previsti alla parità di genere, ma in realtà sono molti meno di quanto scritto perché la cifra dei 17 miliardi abbraccia molto altro: 3 miliardi sono destinati alle politiche del lavoro per i giovani, 5,9 alla vulnerabilità sociale, allo sport e al terzo settore, 3,8 agli interventi speciali per la coesione territoriale e, dunque, rimangono solo 4,2 miliardi dedicati alla vera e propria parità di genere, alla faccia del “pari e patta”. La metà della popolazione italiana che in quest’anno di Covid19 (… che, a conti fatti, durerà anni) ha perso di più è considerata economicamente alla stregua delle comunità montane, alle quali è dedicata la medesima cifra.

È il “dispetto” che ci arriva dalle discriminazioni indirette, non intenzionali, che sono le più subdole e difficili da contrastare: la disuguaglianza di genere ha cause strutturali, radicate alla base dei nostri modelli di organizzazione sociale, economica, politica e culturale e proprio nei momenti di passaggio, come quello attuale, si presenta l’occasione di imprimere un cambiamento, la possibilità di innovare l’intero sistema. Il rischio è quello di dare alla crisi la forza di farci arretrare: come società, come Stato, come politica, come mercato del lavoro, come tutto.

Dovremmo, invece, investire in settori ad alta occupazione femminile, nei “piani B” dell’intraprendenza femminile che deve trovare la possibilità di accedere al mercato imprenditoriale, alle partite Iva e alla costruzione di una nuova identità lavorativa, lontana dalla precarietà diventata uno stile di vita; la filosofia delle start up non deve essere solo un appannaggio maschile. Occorre investire, non fare finta di farlo. La ripresa va declinata al femminile se ripresa vogliamo che sia.

E forse potremmo prendere spunto da una delle poche buone notizie che il 2020 ci ha lasciato: mai come prima le donne hanno scelto di agire come fossero un “potere”, tentando di auto-conferirsi dignità e ruoli, proprio nei contesti in cui sono più spesso negate. Storditi dall’uragano Covid19, non abbiamo prestato attenzione all’anno trascorso in Bielorussia: in prima linea nella protesta contro Lukashenko, l’anti-democrazia; in Polonia le donne hanno occupato le piazze per riprendersi il diritto di scelta sulla maternità che i partiti di estrema destra, in combutta con i vescovi polacchi, nascondendosi tra le nubi della pandemia, hanno tentato di cancellare; in Ungheria hanno tentato “con le unghie e con i denti” di resistere ai tentativi di Orban e dei suoi partiti di non far approvare la convenzione di Istanbul in Parlamento. L’Europa le ha lasciate sole, ma si sono rimboccate le maniche, con una forza mai vista prima.

Riassumendo, quindi, le donne sono state le prime a perdere il lavoro e, anche se lo conservano, restano le meno pagate. Reggono il carico dei lavori in casa, duplicato dal fermo delle scuole, per il quale sono state costrette a sacrificare il lavoro professionale, eppure rimangono escluse o minoritarie dai luoghi in cui si prendono le decisioni politiche, soprattutto quelle sulla destinazione dei fondi europei.

Ma se è vero che la crisi fa emergere la coscienza di sé … beh non si può che augurare alle donne, di tutto il mondo, per gli anni che verranno, di saper mettere a frutto la lezione che hanno imparato dal 2020: la miglior risposta a un potere che le ostacola è il “potere che agisce insieme”, che ascolta le differenze, capace di riorganizzarsi e organizzare per la prima volta una società paritaria.

Chiara Aldegheri
Dottoressa in giurisprudenza